Elisabetta aveva otto anni o, come diceva lei ripetendo una frase che aveva sentito chissà dove, “otto anni e non sentirli”.
La scuola era finita, il campo estivo sarebbe iniziato due settimane più tardi, e a Elisabetta non era ancora permesso di stare a casa da sola, perciò passava le giornate con i nonni.
Era un pomeriggio di luglio e faceva già molto caldo. C’era il sole a picco, e il cielo era così azzurro che quando Elisabetta alzava sopra la testa la sua matita azzurra, la punta sembrava sparire, perché era proprio dello stesso colore. Il giardino era tutto verde e l’erba era tiepida, ci potevi camminare coi piedi nudi sentendo gli steli che facevano il solletico alle caviglie. C’era silenzio, a parte le cicale. Le avevano detto che le cicale erano insetti, e a Elisabetta gli insetti facevano un po’ schifo, però le cicale, tutte insieme e nascoste fra le foglie, facevano un suono bello, rilassante. Oltre alle cicale c’era il nonno che lavorava nell’orto. Aveva un cappello di paglia e la schiena nuda, e tirava via le erbacce borbottando qualcosa. Ogni strappo un borbottio, forse si lamentava perché le erbacce non lasciavano in pace i pomodori.
Elisabetta era in casa, perché fuori c’era troppa afa e lei aveva la pelle ancora troppo bianca. Si annoiava, non c’erano altri bambini e la mamma aveva detto che il tablet lo poteva usare solo quando c’era lei. Se l’era addirittura portato in ufficio per evitare tentazioni.
Elisabetta aveva colorato per un po’ sul tavolino, ma ora era stufa. Allora andò dalla nonna, che stava seduta al tavolo del salotto a fare la settimana enigmistica. Elisabetta aveva imparato a leggere da poco, e non ci capiva niente, ma anche il nonno diceva che non ci capiva niente.
La nonna era vecchissima, Elisabetta non sapeva veramente quanto, ma l’inverno precedente le aveva detto che per raggiungerla servivano più di otto bambine come lei, una cosa a cui Elisabetta aveva pensato per giorni.
La nonna aveva un vestito coi fiorellini verdi e rossi, e scriveva con una penna blu che ogni tanto, mentre pensava, si picchiettava sulla fronte dalla parte del tappo, dove non sporcava. Aveva le ciabatte e sul tavolo teneva sempre un bicchiere di tè freddo alla pesca, perché quello al limone non le piaceva.
«Nonna mi annoio.»
«È ancora presto per uscire fuori, c’è troppo sole» le rispose la nonna con un sorriso.
«Lo so» disse Elisabetta, «ma mi annoio lo stesso.»
«E cosa ti va di fare?»
Elisabetta ci pensò su, stiracchiandosi con le mani sul tavolo.
«Raccontami una storia» decise infine.
La nonna sorrise e posò la penna sul tavolo. Alzò gli occhi al soffitto arricciando le labbra rugose mentre rifletteva. A Elisabetta sembrò quasi di vedere uscire i mumble mumble che trovava su Topolino.
«La vuoi sentire una storia su luglio?» chiese infine la nonna.
«Sììì!» esultò Elisabetta, che non sapeva esattamente cosa intendesse, ma da come la nonna aveva fatto quella proposta doveva essere qualcosa di succoso.
«Allora vediamo», cominciò la nonna. «Quando ero anch’io una bambina, avevo circa undici anni, quindi non tantissimi più di te, durante l’estate aiutavo la mia mamma, cioè la tua bisnonna. Avevamo un piccolo albergo sulla Riviera Romagnola, lo sai cos’è la Riviera Romagnola?»
Elisabetta scosse la testa.
«È un posto molto bello dove c’è il mare e dove arrivano persone da tutta Italia e anche da fuori per stare in compagnia. E lì sulla Riviera i tuoi bisnonni avevano un albergo, anche se si diceva “pensione”. E quando ero una bambina e poi una ragazzina io davo una mano con tutte le cose che potevano servire.»
«E tu da bambina eri bella?» volle sapere Elisabetta.
La nonna sorrise con l’aria di chi la sa lunga. «Certo che ero bella, non ho mica sempre avuto tutte queste rughe, sai?»
Elisabetta faceva davvero fatica a immaginare una nonna che non fosse sempre stata la nonna che lei conosceva.
«Va bene, vai avanti» la spronò.
«Un giorno era luglio, e faceva caldo come oggi. La stagione era appena iniziata, l’albergo era tutto pulito, si sentiva l’odore del mare e mi ricordo le tovaglie bianche che prendevano l’aria dalle finestre aperte e avevano tutti gli angoli che ondeggiavano, e io dovevo mettere dei fermini di metallo per evitare che volassero via. Una mattina, poco prima di pranzo, arrivarono dei clienti, e fra questi c’era un bambino che veniva a stare due settimane insieme alla sua mamma.»
«E questo bambino era bello?» chiese Elisabetta, subito incuriosita.
La nonna le fece un sorriso furbo e si tenne per sé la risposta un altro po’, finché Elisabetta non le si appese al braccio ripetendo “dimmelo, dimmelo”.
«Oh sì, era un bambino bellissimo», confermò la nonna. «Ma per me non era un bambino. Aveva tredici anni, e quando un bambino ha tredici anni e tu ne hai dodici, lui sembra già grandissimo. Aveva i calzoncini corti, la maglietta, e portava gli occhiali tondi. Sembrava molto intelligente e aveva un bel sorriso.»
Elisabetta aveva avuto dei fidanzati all’asilo, e adesso che aveva finito la seconda elementare il suo fidanzato era Daniele, un suo compagno, ma non sapeva se dopo l’estate sarebbero stati ancora fidanzati, magari se ne sarebbero dimenticati.
«E tu l’hai conosciuto?» chiese impaziente.
«Aspetta, non correre» rispose la nonna. «Questo bambino, ma a lui non sarebbe piaciuto se qualcuno gli avesse dato del bambino, andava al mare con la mamma alla mattina e al pomeriggio, pranzavano e cenavano alla pensione, e alla sera facevano la passeggiata sul lungo mare, mangiando il gelato o la piadina, se a cena non avevano esagerato. Io stavo quasi sempre alla pensione, e quindi lo vedevo quando lui era lì.»
«Ma a te piaceva, nonna?»
La nonna si sporse in avanti, con fare cospiratorio.
«Oh sì che mi piaceva, e quando loro mangiavano io lo spiavo sempre dalla porta che dava sulla cucina.»
«E che hai fatto?»
«Per un po’ di giorni niente, ero timidissima. Mi sarebbe piaciuto parlargli, ma non sapevo come fare. Lui però sembrava annoiato, forse si sentiva troppo grande per andare in vacanza con la sua mamma, ma non mi sembrava felicissimo. Poi un giorno, quando non mancava tanto alla loro partenza, lo vidi che sedeva da solo sul dondolo. Mi ricordo che era una bella sera fresca, da qualche parte in paese c’era una festa, si sentiva una musica lontana, e la gente che rideva e si divertiva.»
Elisabetta si mise in ginocchio sulla sedia e si sporse sul tavolo con la testa appoggiata sulle mani. Il suo sorriso, a cui mancava un dente, fremeva di curiosità.
«Gli ho chiesto se voleva qualcosa da bere, anche se di solito c’era un cameriere che lo faceva. Lui mi disse di no, ma così cominciammo a parlare un po’. Mi raccontò di sé, della scuola che faceva, del suo papà che lavorava e a luglio non poteva andare in vacanza con loro.
«E poi e poi?» la incalzò Elisabetta.
«E poi niente, tre giorni dopo lui e la sua mamma ripartirono.»
Elisabetta mise il broncio. «Nonna non è una bella storia, non c’è niente di formidabile.»
“Formidabile” era una parola che aveva imparato da poco e la usava ogni volta che era possibile.
«Aspetta, non ho finito» disse la nonna in tono furbo.
Elisabetta di ringalluzzì subito.
«Se ne andò, ma io non smisi di pensare a lui, per tutta l’estate, ogni giorno. Tutte le mattine speravo di vederlo tornare, anche se sapevo che era impossibile perché nessuno tornava mai due volte nel corso della stessa estate. Poi però tornai a scuola, ricominciai la mia vita di sempre e per un po’ non pensai a lui. Ma quando tornò la primavera e compii tredici anni, i miei genitori cominciarono a prepararsi per la stagione estiva e io mi ricordai di lui e ricominciai a pensarci tutti i giorni. Non sapevo sa sarebbero tornati, e mi vergognavo a chiedere alla mamma.»
«E sono tornati? Dimmelo nonna ti preeego!»
La nonna fissò Elisabetta senza parlare, sorridendo con gli occhi vispi e la bocca rugosa mentre la nipotina non riusciva nemmeno a prendere fiato nell’attesa.
«Il 15 luglio, proprio come l’anno precedente, tornarono.»
«Evviva!»
«Sì, e successe una cosa che non mi aspettavo.»
«Cosa cosa?»
«Quando arrivarono io lo vidi e mi sentii lo stomaco tutto attorcigliato. Era diventato più alto, aveva i capelli un po’ più lunghi, ma era sempre lui. Avevo passato settimane e settimane a chiedermi se si fosse trovato una fidanzata, e se sarebbe venuto ancora da noi. Non sapevo se essere più spaventata dal non vederlo, o dal vederlo con una mano nella mano di qualcuna. E anche se era troppo giovane per venire al mare con una fidanzata, io avevo paura lo stesso.»
«E ce l’aveva?»
«No, non ce l’aveva» rassicurò la nonna. Elisabetta fece un lungo “fiiiuuuuu”, pronunciando le lettere perché non sapeva fischiare.
«Non solo non aveva una fidanzata» proseguì la nonna, «ma quando arrivò si guardò subito intorno, e quando mi vide lasciò sua madre e mi corse incontro per salutarmi. Credevo si fosse dimenticato di me, e invece si ricordava anche il mio nome, ed ero felicissima. Mi ricordo che mi guardò in modo strano, nuovo, perché in quell’anno io ero un po’ cresciuta, ero diventata una ragazzina, e lui se ne accorse.»
«Allora vi siete fidanzati?»
La nonna rise, facendo segno “così così” con la mano.
«Non era come adesso, eravamo più timidi tanti anni fa. Ma quell’estate parlammo sempre, tutti i giorni, e per due settimane io non vedevo l’ora di trovare cinque minuti per parlare con lui. Una volta, di domenica, lo portai a piedi fino al Bagno 14, perché lì davanti facevano le piadine dolci più buone di tutta la Romagna, e ne prendemmo tre, così dopo averne mangiato una a testa ne avevamo un’altra metà. Qualche giorno dopo, però, dovette andare via di nuovo.»
«Vi siete scambiati il cellulare?» chiese Elisabetta sapendo che sarebbe stata una cosa ragionevole.
La nonna carezzò il viso di Elisabetta scuotendo la testa divertita.
«No Betta, non c’erano i cellulari. Ma sai cosa fece il Natale dopo?»
«Che cosa?»
«Andò in montagna con i suoi genitori e mi mandò una cartolina.»
«E che cos’è una cartoina?» chiese Elisabetta, perplessa.
«Cartolina, con la L» precisò la nonna. «È una piccola scheda di carta dove tu puoi scrivere un messaggio per una persona, e mandarlo a casa sua.»
«E quanto ci mette?»
«Ci mette un po’ di giorni, ma alla fine arriva. E lui mi scrisse che si stava divertendo in montagna, ma che preferiva il mare e sperava di tornare a luglio.»
«È tornato?»
«Sì è tornato. A quel punto lui aveva quindici anni, e io quattordici. Ed è tornato anche quando ne aveva sedici, e io quindici. È tornato anche quando si sentiva troppo grande per andare al mare con la sua mamma.»
«Tornava per vederti!» esclamò Elisabetta, tutta felice sia di questo risvolto romantico, sia del fatto che era stata in grado di dedurlo da sola.
«Sì, veniva per me, e mi diceva che non c’era nessuno in tutto il mondo, né a scuola né al suo paese, con cui parlava più volentieri che con me. Poi però il luglio dei suoi diciotto anni, non venne.»
«Come no?» si stupì Elisabetta, che subito si rabbuiò.
«La sua mamma venne al mare da sola, e quando entrò nella pensione si accorse subito che io cercavo suo figlio. Mi disse che purtroppo non sarebbe venuto, ma aveva con sé una lettera che lui le aveva chiesto di darmi. Io la ringraziai e feci finta che la cosa mi importasse poco, ma poi cercai subito una scusa per andare a leggerla, e mi ricordo che la mia mamma e la sua sorridevano insieme della mia preoccupazione, ma a me non importava. Andai a leggere la lettera e scoprii che era andato a militare. Lo sai cos’è?»
Elisabetta scosse la testa, intristita da quel risvolto.
«Una volta i maschi che compivano diciotto anni andavano ad addestrarsi per fare il soldato, anche se non c’era nessuna guerra, per fortuna. Solo che lui quell’anno non poteva più venire al mare. Mi scrisse che gli spiaceva molto, ma proprio non riusciva. Aggiunse che probabilmente non sarebbe più venuto al mare con la mamma, perché ormai era un uomo, ma giurò solennemente che appena possibile sarebbe venuto a trovarmi da solo.»
«E l’ha fatto? È venuto a trovarti?» chiese Elisabetta, bramando un lieto fine che sembrava sfuggirle dalle mani.
«No, non è venuto» ammise la nonna.
«Cattivo!» si arrabbiò Elisabetta. «Aveva fatto una promessa!»
La nonna sorrise di nuovo.
«Ma lui voleva mantenere la promessa. Sai perché non l’ha mantenuta?»
«Perché?»
«Perché non volevo aspettare, e allora sono andata a trovarlo prima io.»
Il viso di Elisabetta si allargò nello stupore.
«Tuuu???»
«Sì certo, io. Perché, una ragazza non può andare a trovare un ragazzo a cui vuole bene?»
«Sì sì, ci deve andare» confermò Elisabetta con convinzione.
«Lui faceva il militare a Vicenza, io chiesi alla mia mamma il permesso di andare, lei mi disse di stare attenta ma acconsentì. E sai cosa successe?»
«Dimmelo dimmelo!»
«Che io andai a Vicenza dove c’era la caserma, chiesi di lui, lo mandarono a chiamare, e quando mi vide gli venne da piangere, si commosse.»
Elisabetta si mise le mani davanti alla bocca, stupefatta.
«E poi e poi?»
«E poi ci siamo abbracciati, e pensa un po’, io l’ho baciato!»
Stavolta Elisabetta si coprì direttamente gli occhi.
«Io non pensavo che avevi mai baciato nessuno nonna!»
«Eh invece sì» ribadì la nonna, divertita. «E molti suoi compagni di caserma ci videro e fischiarono e applaudirono. E il suo capitano, che era una brava persona, capì la situazione e gli diede la serata libera, così andammo a cena e passeggiammo e io lo baciai ancora un sacco di volte. Era domenica, 21 giugno 1970, il primo giorno di quella estate, uno dei giorni più belli della mia vita di ragazza.»
«Uao!» sospirò Elisabetta, che rimaneva sempre colpita quando qualcuno parlava della cosa più grande, o più bella, di un’intera vita.
«È una storia abbastanza formidabile?» volle sapere la nonna.
«Sì sì, è super formidabile!» approvò Elisabetta. «Però nonna, ti devo chiedere una cosa.»
«Dimmi pure.»
«Tu ci parli ancora con lui? Quando poi c’era il cellulare ve lo siete scambiato?»
La nonna trattenne una risata.
«Sì, ci parlo spesso» confermò.
Elisabetta ne fu felicissima. «E il nonno lo sa? Lo conosce? E fa ancora il soldato a Civenza?»
«A Vicenza» la corresse la nonna. «No, non è più a Vicenza.»
«E dov’è allora?» volle sapere Elisabetta.
La nonna si sporse sul tavolo e la invitò con un gesto ad avvicinarsi, come se dovesse rivelarle un segreto che non poteva essere udito da persone indiscrete. Le fece segno di girare la testa così da poterle sussurrare in un orecchio.
Elisabetta si tese sul tavolo e fece un’espressione concentratissima, non voleva rischiare di perdere il segreto, che magari la nonna non avrebbe voluto pronunciare una seconda volta.
«Sta strappando le erbacce nell’orto.»
Elisabetta voltò di nuovo la testa verso la nonna e la guardò con espressione confusa, senza capire. Poi però, di fronte a quel sorriso antico e gentile, cominciò a cogliere il senso delle parole, e più lo coglieva più i suoi occhi si spalancavano per la sorpresa.
Non disse nient’altro alla nonna, ma saltò giù dalla sedia e corse verso la portafinestra aperta, fiondandosi in giardino. Raggiunse il nonno, che sorrise nel vederla, e cominciò a gesticolare e saltellare sul posto. La nonna non riusciva a sentire cosa gli stesse dicendo, ma immaginava che fosse una sua versione di tutta la storia che aveva appena sentito. Quando vide suo marito che si toglieva il cappello per metterlo sulla testa delicata della bambina, che non smetteva di parlare un secondo, riportò gli occhi sul cruciverba e lesse il 7 verticale: “Paesino della Riviera Romagnola”.
Contò le lettere, sorrise e scrisse la risposta.