Il genio dello zippo

Dino era arrivato al capezzale di suo padre qualche ora prima. Non gli sembrava stesse soffrendo. Aveva gli occhi chiusi e respirava con leggero affanno, come se si trovasse negli ultimi metri di una lunga corsa, ma non dava l’impressione di uno sforzo doloroso. Non c’erano dubbi, comunque, sul fatto che mancasse poco.
Strano uomo, suo padre. Per volti versi uno come tanti. Eppure c’era sempre stato qualcosa, di lui, che non gli era mai riuscito di comprendere fino in fondo. Un’indole inquieta, un’urgenza, o forse un pensiero, come un residuo incastrato nei denti del cervello, di cui a volte sembrava potersi dimenticare, ma che non se ne andava mai per davvero, e che era sempre pronto a fargli perdere il filo di quello che stava dicendo, costringendolo a vagare con lo sguardo e con la mente.
Anche ora, fragile e indifeso com’era, galleggiava in un alone quasi febbrile, in un mistero suo personale che non sembrava disposto a concedergli pace nemmeno in punto di morte.
Quando Dino ormai credeva che non avrebbe mai più rivisto i suoi occhi, il vecchio li aprì con grande fatica. Cercò con impegno il volto del figlio, lo trovò, e riuscì in qualche modo a muovere una mano quel tanto che bastava per invitarlo ad avvicinarsi. Dino si fece più sotto, e vedendo il padre che tentava di aprire la bocca accostò l’orecchio alle labbra secche e grinzose.
«Non toccare quello verde» sussurrò il morente, e fu come se l’energia necessaria a spremere quelle poche parole fosse più di quello che il suo corpo potesse sopportare. Trasse un ultimo respiro affannato, e poi restò completamente immobile.
Un paio delle persone che erano lì con Dino lo guardarono con espressione interrogativa, perché non erano state in grado di cogliere le ultime parole del defunto. Il figlio, però, stiracchiò un sorriso mesto e scosse la testa, rivelando che non si era trattato di parole coerenti, ma solo degli ultimi spasimi verbali di un uomo ormai non più cosciente.

Nei giorni successivi, Dino dovette occuparsi di tutte le incombenze burocratiche e organizzative che sempre circondano la morte, e solo dopo una settimana poté prendersi il tempo per passare in rassegna gli averi di suo padre, fra cui l’unica cosa di cui in vita era sembrato veramente geloso: la sua collezione di accendini. Tutti vecchi zippo, a benzina, con cassa in metallo. Strana ossessione per un uomo che non aveva mai fumato in vita sua. Ne possedeva un paio di centinaia, tutti accuratamente riposti in scatole foderate di feltro. E fu proprio passando in rassegna quella ricca collezione che si rese conto che uno e uno solo di quegli accendini era custodito in una scatola munita di chiusura a lucchetto. Una chiusura che però, dopo essere stata aperta e chiusa innumerevoli volte, era praticamente inutilizzabile, tanto che quasi gli rimase in mano mentre sollevava la scatola. All’interno, poggiato da solo sul tessuto rosso, c’era un unico zippo che subito lo colpì per il colore: era verde smeraldo.
Non ci volle chissà quale arguzia per capire che era proprio a quell’oggetto che facevano riferimento le ultime parole di suo padre, e si chiese se non fosse il senile riemergere di un ammonimento che gli aveva rivolto quando lui era bambino, nel tentativo di proteggere quello che, per qualche motivo che non conosceva, era il pezzo più pregiato della collezione.
Lo prese in mano e lo rigirò fra le dita, percependo sui polpastrelli il morbido rilievo di un’incisione a forma di aquila.
Lo estrasse dalla scatola e, prima di accenderlo, si chiese se non stesse effettivamente venendo meno all’ultimo desiderio di suo padre, ma subito sorrise di quell’attimo di superstizione, ben conscio che quella richiesta non era certo venuta da una mente lucida e razionale.
Aprì il coperchio di metallo e, quando fece girare la rotella con il pollice, invece di una piccola fiamma si sprigionò un lampo violento, che gli fece perdere la presa sull’accendino e lo costrinse a sedersi sul letto dietro di lui.
Si toccò il viso temendo in un’esplosione del serbatoio della benzina, ma non si sentiva bruciare né provava dolore. Mentre faceva questi rapidi controlli, però, la stanza si riempì con sorprendente velocità di un fumo chiaro, denso e inodore, una sorta di inspiegabile nebbia da cui, improvvisamente, fece capolino una figura umana.
Indeciso fra lo stupore e il panico, completamente paralizzato sulla spessa trapunta del letto, Dino vide di fronte a sé un uomo calvo, dai tratti mediorientali, che incrociava sul petto due braccia ambrate e forzute. Le gambe, se c’erano, erano invisibili, perse nella nebbia, ma era impossibile non vedere i suoi occhi, due pozzi scuri al cui interno scorreva una sabbia millenaria.
Prima che Dino potesse fare qualunque cosa, l’apparizione parlò con una voce proveniente da un’antica profondità.
«Salute a te, mio nuovo padrone, sono pronto a esaudire qualunque tuo desiderio.»
Dino provò una vertigine soprannaturale prima di accogliere dentro di sé la certezza rassicurante che doveva trattarsi di un elaborato trucco tecnologico, una specie di ologramma. Suo padre era dunque un inventore? Era geloso di un possibile brevetto?
Trovò il coraggio di sporgersi e allungò una mano verso la spalla dell’apparizione, curioso di vedere quando le sue dita avrebbero bucato l’immagine tridimensionale. Invece trovò la solida spalla e la pelle ruvida di un uomo in carne e ossa.
Dino si ritrasse, inorridito, e i pensieri nella sua mente non seguirono un percorso lineare, ma si ammassarono in ondate successive. Il fumo, l’aspetto di quell’uomo comparso dal nulla, l’accenno a desideri da esaudire. Un genio, il genio della lampada. Anzi, dello zippo. Suo padre lo sapeva. Per questo gli aveva detto di non toccarlo. Ma perché, non era forse una scoperta straordinaria? Ma soprattutto, e questo pensiero sorse da solo e presto occupò più spazio di tutti gli altri, perché suo padre non l’aveva usato? Era chiaro che non l’avesse fatto, giusto? Un uomo dalla vita semplice, con un lavoro e una moglie e un figlio normali. Dov’è la ricchezza? Dov’è la magia? E perché era morto nel suo letto, ormai vecchio e debole, con quell’unico monito da strizzare fuori dall’oblio?

Dino fissò il genio a lungo, e quello sostenne il suo sguardo con calma immutabile. Ci volle un po’ perché riuscisse a inumidirsi a sufficienza la lingua secca per articolare qualche parola.
«Esaudire qualunque desiderio, hai detto. Ma quanti ne posso esprimere? Tre? Uno solo?»
«Desideri conoscere la risposta alle tue domande?»
Dino inspirò per rispondere di sì, e poi si fermò. Un sudore freddo e umido gli appiccicò alla schiena il tessuto della camicia che indossava.
«No» rispose secco. Non desiderava la risposta alla domanda. In mezzo al fumo, nella vecchia e silenziosa stanza di suo padre, udì nei timpani il basso rimbombo delle sue pulsazioni. Era un trucco. Se avesse risposto di sì avrebbe speso il primo e forse unico desiderio solo per avere la risposta a una domanda. Quella creatura assomigliava alla sua idea di genio, ma era qualcosa di diverso. E certamente non era blu e non era simpatico.
Sentiva dentro di sé un impeto di avidità, ma anche il peso di un timore superstizioso. Non ne sapeva abbastanza, non riusciva a capire tutto quello che aveva di fronte, percepiva un pericolo.
Lanciò un’occhiata in basso, vide per terra lo zippo aperto da cui usciva un filo di fumo, e con un gesto istintivo lo raccolse e lo chiuse. Nel brevissimo lasso di tempo che servì al coperchio d’acciaio per ricadere sulla cassa, il fumo e il genio vennero nuovamente risucchiati all’interno del congegno, lasciando Dino da solo in una normalissima stanza vuota.

Nei giorni successivi non pensò ad altro. Valutò la possibilità che si fosse trattato di un’allucinazione, ma la scartò. Non solo era un’impressione troppo vivida, e non solo non faceva uso di sostanze che potessero generare una visione del genere. Ma lo sentiva. Sentiva l’energia racchiusa nello zippo mentre lo stringeva.
Provò a documentarsi, a scoprire qualcosa di più, ma trovò niente altro che favole e leggende, e nulla che facesse riferimento a un accendino.
Gli ci volle più di una settimana per riaprire lo zippo. Lo fece a casa sua, dopo la mezzanotte, nel silenzio del quartiere e con le finestre ben chiuse. Il genio comparve immediatamente, come la prima volta.
«Salute a te, padrone, sono pronto a esaudire qualunque tuo desiderio.»
Dino era pronto alla sua comparsa, ma sentì comunque un brivido percorrergli il corpo. La verità era che non si fidava, sia per il tranello che il genio gli aveva teso, sia per l’ammonimento di suo padre. Doveva temere qualcosa, un rovescio della medaglia, degli effetti collaterali.
Provò a immaginare di chiedere di diventare ricchissimo. Non si immaginò dobloni d’oro e lingotti, ma semplicemente il suo conto in banca che aumentava di mille volte, o qualcosa del genere. Subito, però, esercitò la diffidenza che aveva già scelto come alleata.
Cosa sarebbe successo se il genio avesse moltiplicato i soldi sul suo conto? La sua banca se ne sarebbe accorta? E se sì, non si sarebbe forse fatta qualche domanda? Avrebbero potuto accusarlo di aver lanciato un attacco hacker sulla filiale. Senza contare le tasse da pagare e la conseguente attenzione dello stato. E se qualcuno alla banca si fosse lasciato scappare qualche dettaglio, avrebbe potuto trovare i giornalisti alla porta.
Dino sorrise fra sé, e poi all’indirizzo del genio. Non si sarebbe lasciato fregare così facilmente.

Nei giorni successivi rifletté sul fatto che non sapeva abbastanza del modo di lavorare del genio. Poteva anche essere che le sue paure fossero eccessive, e che il genio avesse il potere di leggere la sua mente e interpretare le sue parole nel modo più favorevole possibile. Per esempio, avrebbe potuto far sì che l’aumento dei soldi sul conto si accompagnasse a un totale disinteresse da parte del mondo intero sul modo in cui quel denaro era effettivamente finito lì. Ma a Dino non tornava. Troppo era il timore che il genio prendesse le sue parole alla lettera, interpretandole poi a suo piacimento e non necessariamente a vantaggio di quello che lui chiamava padrone.
Lasciò perdere l’idea della ricchezza, e si concentrò su qualcosa di più ardito. Suo padre era appena morto, Dino era ateo, e la vicinanza con la morte, che lui considerava la semplice cessazione dell’esistenza, l’aveva scosso. Se avesse chiesto l’immortalità?
Rifletté a lungo su quella possibilità, e si rese conto che esistevano molti elementi di incertezza. Cosa avrebbe significato, per il genio, la parola “immortalità”? La semplice incapacità di morire di vecchiaia, o un vero e proprio perpetuarsi infinito della vita, senza la possibilità di morire in alcun modo? In quest’ultimo caso, non solo Dino sarebbe sopravvissuto a qualunque persona cara avesse mai conosciuto, ma addirittura all’intera specie umana. E se così fosse stato, Dino si sarebbe potuto trovare da solo, dopo miliardi di anni, su una Terra prossima alla distruzione da parte di un sole morente, circondato da terre aride e solitarie, senza vita. Senza contare che il concetto di immortalità non lo salvava necessariamente né dal dolore, né dall’invecchiamento. Il suo desiderio di vita eterna si sarebbe potuto tradurre facilmente in un inferno quasi letterale.
Ovviamente avrebbe potuto fornire delle specifiche. Pretendere la giovinezza insieme all’immortalità, e magari inserire la possibilità di terminare da solo la sua vita, quando e se avesse voluto. Rimaneva però un problema di fondo: il genio avrebbe ascoltato tutto? C’era la possibilità che il suo nuovo, misterioso amico avesse una sorta di limite verbale oltre il quale il desiderio veniva considerato espresso. In quel caso, se Dino avesse usato troppe parole, o un’intonazione sbagliata, il genio avrebbe potuto lanciare il suo incantesimo troppo presto, costruendo un desiderio a metà che avrebbe potuto mostrare terribili limiti. E nella formula che il genio usava quando compariva, non era dato sapere quale fosse il numero di desideri effettivamente esprimibili.
Ancora una volta, Dino non si sentì pronto, e chiuse lo zippo.

Nelle settimane che seguirono, ogni suo momento libero era dedicato alla riflessione.
Avrebbe potuto chiedere l’amore. Un desiderio semplice, dopotutto. O forse no? Cosa significa trovare l’amore? Il genio avrebbe preso una ragazza e l’avrebbe fatta innamorare di Dino? Sapeva tanto di coercizione… Magari l’avrebbe creata dal nulla, ma come avrebbe potuto essere “vero” amore con una donna nata da un sortilegio? Senza contare che anche in questo caso le parole sarebbero state molto importanti. “Trovare l’amore”, di per sé, non garantiva che quel sentimento sarebbe stato corrisposto, e Dino avrebbe semplicemente potuto trovarsi ad amare una persona che non lo ricambiava.
Avrebbe anche potuto diventare un supereroe. Rifletté con attenzione sulla possibilità, per esempio, di chiedere gli stessi poteri di Superman. L’invulnerabilità, la forza, la capacità di sfrecciare nel cielo! Per un attimo fu quasi convinto. Poi però, ancora una volta, strane ombre finirono col calare sui suoi pensieri: nei film e nei fumetti Superman mostrava non solo di possedere straordinari poteri, ma anche la capacità di utilizzarli con maestria. Il genio avrebbe garantito anche questo? Oppure Dino, appena investito delle sue nuove abilità, sarebbe schizzato come un proiettile attraverso l’appartamento, uccidendo i suoi vicini di casa e magari decine di altre persone mentre cominciava a girare intorno al pianeta, incapace di controllarsi? Troppe, troppe incognite. Forse c’era qualche supereroe meno pericoloso fra cui scegliere, ma avrebbe potuto essere meno soddisfacente e comunque non lo liberava dalla necessità di riflettere con saggezza.

Il tempo passava, e la vita presentava molteplici tentazioni. Un’umiliazione subita sul lavoro che avrebbe potuto essere riparata con una sola frase. La possibilità di sfogare qualunque desiderio sessuale. La semplice consapevolezza di poter dare una svolta a una vita tutto sommato ordinaria. Ma Dino resistette. In fin dei conti, aveva una casa, un lavoro, la salute. Non c’era nulla di cui avesse realmente bisogno. Per questo, ogni sera si guardava allo specchio e ripeteva a se stesso, ad alta voce, pochi semplici concetti, come un mantra. Doveva essere sicuro, non poteva rischiare. Per quanta frustrazione provasse nell’attesa, nulla sarebbe stata in confronto alla delusione di aver espresso male i suoi desideri. E la delusione non era nemmeno la cosa peggiore che potesse capitare.
A un certo punto immaginò di fare del bene. Anzi, si sentì in colpa per non averci pensato subito, e quando formulò questo pensiero provò l’istinto di guardarsi intorno, per essere sicuro che nessuno l’avesse tenuto d’occhio mentre elaborava solamente desideri diretti al suo personale tornaconto.
Per esempio, avrebbe potuto chiedere la buona e vecchia pace nel mondo, quel concetto un po’ infantile, eppure lodevole, a cui avevano inneggiato generazioni di reginette di bellezza.
Eppure, con ironica determinazione, il tarlo del dubbio arrivò nuovamente a rosicchiare le sue certezze. Per lui la pace nel mondo significava la fine perpetua di tutte le guerre. Ma il genio, in una prospettiva più ampia, avrebbe potuto intendere la cessazione di qualunque tipo di conflitto, di qualunque genere o entità. Il genio avrebbe perfino potuto decidere di sradicare la vita umana e forse perfino quella animale dal pianeta. Un mondo vuoto, sterile e desertico sarebbe stato senza dubbio “in pace”.
E se anche fosse stato più preciso, non ci sarebbero state grandi garanzie. Chiedere la fine delle guerre avrebbe comportato lasciare al genio la facoltà di decidere come farle finire. E a favore di chi. Risolvere la fame del mondo avrebbe potuto distruggere intere filiere produttive, e non era detto che le persone sarebbero state felici di stare con la pancia piena, ma comunque povere in canna.
La fine delle malattie? Del cancro? Ma se nessuno si fosse più ammalato, la sovrappopolazione sarebbe completamente esplosa, moltiplicando i problemi ad essa correlati.
Risolvere la crisi ambientale? Il buco nell’ozono? E se il genio avesse distrutto tutta la tecnologia, riportando l’umanità a uno stadio primitivo al solo scopo di ridurre le emissioni di anidride carbonica e altri agenti nocivi?

Era passato un anno dalla scoperta dello zippo, quando Dino conobbe Stefania. Si incontrarono per questioni lavorative, e si piacquero subito. Dino si sentì sciocco per le volte in cui aveva pensato di usare il genio per trovare l’amore, perché più conosceva Stefania, e più si rendeva conto che se l’avesse conosciuta tramite la magia non sarebbe stata la stessa cosa. I desideri andavano tenuti per qualcosa di realmente impossibile, qualcosa che andasse oltre la normale esperienza umana, altrimenti sarebbero stato sprecati.
Ma se il sentimento per Stefania cresceva di giorno in giorno, Dino scelse comunque di non dirle dello zippo. Da una parte avrebbe voluto parlargliene, perché era una donna di grande intelligenza e avrebbe potuto aiutarlo, consigliarlo, perfino suggerire un desiderio da condividere, una prospettiva che Dino trovava ogni giorno più allettante man mano che la conosceva.
Allo stesso tempo, però, sapeva che la storia dell’umanità era piena di iniziative collettive che avevano portato a grandi risultati, ma anche di scelte comunitarie che avevano provocato enormi disastri. Parlare con Stefania del genio avrebbe potuto condurre a un’illuminazione, oppure avrebbero potuto auto-convincersi della bontà di un’idea che, invece, si sarebbe rivelata catastrofica non appena fosse uscita dal loro reciproco entusiasmo.

Nei mesi seguenti, le certezze di Dino nei confronti di Stefania crebbero di giorno in giorno, mentre i dubbi sul genio non riuscivano a dissolversi. Apriva lo zippo ogni volta che poteva. Buona parte del tempo libero che non spendeva con Stefania lo impiegava guardando il genio in quei suoi occhi millenari, scrutando e cercando una via d’uscita, una chiave per leggere quella sua placida indecidibilità. Qualche volta, in ufficio, andava in bagno e si chiudeva a chiave nel gabinetto senza finestre, solo per concedersi qualche minuto di riflessione in presenza di quella misteriosa creatura. Dal canto suo, il genio lo fissava fluttuando nel fumo, in attesa di una richiesta che non arrivava, ma apparentemente immune alla noia o alla frustrazione. Viveva (ammesso che fosse realmente vivo e non fosse una qualche forma di intelligenza artificiale) solo in funzione della sua missione, ed era disposto ad attendere tutto il tempo necessario per compierla.
Dino non ci aveva mai più parlato dopo la prima volta. Non osava aprire bocca per non rischiare di esprimere per errore un desiderio sbagliato o, peggio, pericoloso. Dopo la formula di saluto del genio, sempre identica, non c’erano conversazioni, ma mute sessioni di osservazione, pause di riflessione in cui il mondo intorno si fermava, e l’unica cosa che restava era la sospensione di ogni decisione, il lento fluire di ragionamenti già masticati e digeriti, che conducevano sempre nello stesso punto.
Qualche volta, Stefania sorprendeva Dino a non ascoltarla, lui si scusava molto e lei in fondo amava quel suo avere sempre la testa fra le nuvole. Ma non erano nuvole, era il fumo proveniente da un piccolo oggetto verde a cui la mente di Dino non poteva che tornare ogni minuto.

Si sposarono tre anni dopo essersi conosciuti, e Dino era genuinamente felice. Nelle settimane precedenti e seguenti la cerimonia, rifletté a lungo sull’effettiva possibilità di rivelare a Stefania il segreto, e di scegliere un desiderio che potesse imprimere un’accelerazione ancora più gioiosa alla loro vita. Di nuovo, però, non lo fece.
Ogni volta che credeva di aver trovato una possibile soluzione, Dino evocava il genio e si bloccava di fronte al suo sguardo freddo e inespressivo. Nel deserto dei suoi occhi trovava sempre qualche controindicazione, e col passare degli anni la situazione era perfino peggiorata: se all’inizio si sentiva pervaso da istinti prodigiosi, controllabili a fatica solo grazie alla paura di conseguenze imprevedibili, ora la presenza di Stefania lo rendeva ancora più cauto. Non era solo il suo mondo, a essere in gioco, ma anche quello di sua moglie, e la posta in gioco era diventata ancora più alta.

Due anni dopo il matrimonio nacque il loro primo figlio, e Dino provò lo strano impulso di presentarlo al genio, ma non lo fece. Aveva maturato un affetto grottesco per quel demone antichissimo, in fondo non c’era volto che vedesse più del suo, a parte forse quello di Stefania. Ma l’idea di stare al cospetto del genio con in braccio suo figlio appena nato, così piccolo e fragile, non lo faceva sentire al sicuro, come se il genio, nella sua incrollabile capacità di attesa, avesse anche potuto essere un predatore che aveva investito tutti quegli anni al solo scopo di poter mettere le mani su un infante.
In quei primi tempi da padre, Dino finì con l’averne perfino paura. Lo sognava di notte, lo vedeva emergere dalle minuscole profondità dello zippo per ghermire il bambino e portarlo con sé, chiudendosi dietro il tappo dell’accendino che poi si sarebbe saldato al resto del congegno, impedendo qualunque successiva apertura.
Ma non per questo Dino smise di pensarci. Anzi, ci pensava più di prima, perché proprio suo figlio avrebbe potuto beneficiare di un desiderio bene assestato. Se Dino fosse stato capace di azzeccare la richiesta, la sua famiglia avrebbe potuto vivere nella prosperità fino alla fine dei loro giorni, sempre ammesso che ci dovesse essere, una fine dei giorni. Le possibilità erano infinite, così come i rischi. Né smise di incontrarlo, fosse anche solo per controllarlo, tenendo d’occhio i suoi movimenti sempre identici.
Nel frattempo, Stefania cominciò a diventare meno tollerante nei confronti della capacità del marito di perdere la concentrazione. Ora c’era un bambino a cui badare, non si poteva essere sognatori per sempre, e lei aveva bisogno di un aiuto che Dino forniva svogliatamente, troppo preso da chissà quali fantasie.

Dino si impegnò, e si impegnò ancora di più quando Stefania diede alla luce una bambina.
Ma il genio non riusciva a lasciare i suoi pensieri. In casa era sempre più complicato lasciarlo uscire, i bambini non comprendevano il concetto di privacy ed entravano dove volevano. Né chiudere le porte a chiave sarebbe stata una buona soluzione, avrebbe destato sospetti. Si stupì nello scoprire che, se pure prima aveva contemplato la possibilità di condividere la sua scoperta con Stefania, ora quel pensiero nemmeno lo sfiorava. Il genio era affar suo, una missione personale. Arrivò a fingere di andare a correre, solo per poter affittare per poco tempo camere d’albergo in cui poter chiamare il genio e fissarlo senza dire una parola, nella speranza che, prima o poi, avrebbe ricevuto l’illuminazione che cercava.
Ma ormai erano anni che rifletteva, e le sue speranze si erano saldate inestricabilmente alle sue paure in un agglomerato gonfio e storto che gli gravava costantemente sulle spalle.
Stefania cominciò a sospettare qualcosa, e accusò Dino di malefatte che non poteva provare e che, a conti fatti, non avvenivano, non nel modo in cui credeva lei.
Dopo una delle loro litigate, e sapendo quanto male stava facendo alla moglie per il solo fatto di stare riflettendo da tempo sul modo migliore per migliorare anche la sua vita, Dino rifletté sulla possibilità di gettare lo zippo nel fiume. Ma quando ci pensò, quando ci pensò davvero, venne colto da un disagio così profondo, da temere di avere un attacco di panico. Non solo non poteva staccarsi da quei momenti di riflessione, tensione e contatto con l’infinito, ma stava accadendo qualcosa che non aveva in alcun modo previsto: cominciava a temere il momento di esprimere i desideri non tanto per le loro possibili controindicazioni, quanto per il fatto che, una volta espressi, il genio sarebbe probabilmente sparito per sempre, e non avrebbe più potuto intrattenere con lui quelle mute conversazioni.

Quando i ragazzi furono grandi e la seconda figlia iniziò l’università, Stefania chiese il divorzio. Non lo fece con rancore, non volarono piatti e stoviglie. Semplicemente Stefania sentiva che le volte in cui Dino era assente, perso in qualche suo strano mondo, erano più di quelle in cui era presente, e se all’inizio della loro storia trovava qualcosa di affascinante in quella sorta di piccolo mistero caratteriale, ormai per lei era diventato solo un peso insopportabile. Dino provò a farle cambiare idea, ma con poca energia. La verità era che Stefania aveva ragione. Sapeva di non essere stato il marito che lei avrebbe meritato, e il motivo stava in quel piccolo accendino, che ogni giorno occupava una porzione così grande dei suoi pensieri, da soffocare qualunque altra cosa.
Immaginò di usare un desiderio, forse il suo unico desiderio, per sistemare le cose con Stefania. Ancora una volta, però, si chiese se il genio non si sarebbe limitato a farle il lavaggio del cervello, riportandogliela in uno stato di coma vigile nel quale non ci sarebbe stato più nulla della donna che aveva sposato.

Quando il divorzio venne ufficializzato, e quando poi Stefania si risposò, Dino andò ad abitare nella vecchia casa di suo padre. I figli si erano sposati a loro volta e Dino era diventato nonno, anche se non vedeva spesso i nipoti perché le famiglie si erano trasferite per esigenze lavorative.
Dino provava una qualche malinconia, ma in parte era felice di avere moltissimo tempo libero e solitario da spendere con il suo amico genio. Lunghe serate silenziose, immerse in una nebbia di sogno, a guardare la sabbiosa profondità dei millenni che attendeva solo un suo cenno per scatenare potenze cosmiche in grado di cambiare il mondo. Assaporare in punta di labbra quel potere, mentre sorseggiava un liquore davanti a quella specie di cupa divinità piegata al suo servizio, dava a Dino un senso di ebbrezza, la percezione di guardare l’universo da una posizione privilegiata, pieno di dubbi ma anche colmo di un sapere soltanto suo.
Riprese in mano la collezione di suo padre, e si chiese per la prima volta il motivo di tutti quegli accendini. Probabilmente cercava un altro genio, qualcuno meno complicato da comprendere. Magari da qualche parte c’era davvero, un altro zippo fatato nelle mani di un grande magnate della tecnologia, o di qualche attore o attrice da oscar. Forse i loro geni erano più comprensibili, meno criptici. O forse loro erano stati semplicemente più coraggiosi e spregiudicati di lui. Chissà se avevano conservato qualche desiderio, solo per avere la possibilità di desiderare ancora, e prolungare l’attesa.

Quando Dino sentì arrivare la fine, si stupì al pensiero di non voler usare il genio per prolungare la sua vita. Per quanto forte fosse il desiderio di avere altre occasioni di contemplare la potenza soffusa e trattenuta del suo muto amico, con cui non aveva scambiato una sola parola in sessant’anni, in lui albergava ancora quel grumo di aneliti e timori che l’aveva trattenuto per tutta la vita. Il suo tempo era scaduto, ma quello dei suoi figli e nipoti era ancora nel pieno del suo svolgersi, e mai come in quel momento un desiderio mal piazzato avrebbe potuto sconvolgere le vite di tutti.
In fondo, a ben guardare, nemmeno lo meritava. Sapeva di aver sprecato un’occasione, e non necessariamente quella di esprimere davvero un desiderio, quanto piuttosto quella di non aver saputo abbandonare la sua ossessione, togliendo lo sguardo da un futuro invisibile per rivolgerlo a un presente che gli era scivolato dalle mani.
Quando suo figlio venne a trovarlo, sapendo che non mancava molto, erano quasi estranei. Si vedevano solo in poche feste comandate, in cui la conversazione non andava oltre un generico scambio di informazioni sempre uguali. Durante quegli incontri, Dino continuava a ripetersi che presto avrebbe espresso un desiderio che avrebbe aiutato tutti, ma la verità è che sperava che quelle lunghe sessioni di noiosa socialità finissero il prima possibile, così da poter aprire il suo zippo, liberare il fumo e la magia, e guardare l’infinito racchiuso nella sua stanza.
In quegli ultimi istanti non fu capace di elaborare riflessioni particolarmente complesse. Riuscì solo a pensare al fatto che, circondato com’era di persone che erano presenti più per dovere che per vero affetto, non avrebbe potuto aprire lo zippo per un’ultima volta. Si ingelosì al pensiero che qualcun altro potesse scoprire il suo personale demone e farlo suo. E poi si intristì di fronte alla consapevolezza di tutto ciò che aveva perso.
Ormai sul ciglio dell’abisso, in equilibrio precario sull’ultimo filo dell’esistenza, spese le sue ultime forze solo per attirare l’attenzione del figlio, che aveva costruito una vita migliore della sua, e sussurrargli all’orecchio l’unica cosa che, in quel momento e per molte ragioni, gli parve sensata:
«Non toccare quello verde…»

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