Dopo tutti questi anni, so benissimo che il nome che associate più facilmente a questa faccenda è il mio. Dovete però tenere presente che, in realtà, tutto partì da mio padre.
Io ero ancora al secondo anno di università. Ero a casa con mia madre, e papà stava facendo tardi. Non gli capitava spesso, perché all’epoca il suo era un lavoro che tutto poteva contemplare, meno che quotidiane emergenze. Quel ritardo era dunque strano di per sé, ma c’era anche qualcosa, nel messaggio che ci aveva mandato per dirci di non aspettarlo per cena, che quasi mi impediva di stare seduto. Ci aveva scritto “Devo verificare una cosa, è importante”.
Ora voi dovete capire bene un dettaglio. Per mio padre esistevano solo tre cose importanti al mondo: me, mia madre, e il suo lavoro. E se vogliamo essere pignoli, il suo lavoro era arrivato prima di noi due, quindi ho sempre evitato di metterlo in imbarazzo chiedendogli di scegliere quale delle tre fosse la vera colonna portante della sua esistenza. Quella sera mio padre aveva deciso che due delle colonne avrebbero aspettato, perché la terza aveva bisogno di attenzioni particolari, e non è che ci fossero molti modi di intendere le sue parole.
La cosa valeva per me, che fin da bambino ascoltavo le sue storie e vedevo le stelle riflettersi nei suoi occhi, mentre sdraiati sul prato dietro casa guardavamo l’infinito e provavamo a immaginare quali tesori vi si nascondessero dentro. Ma valeva anche per mia madre, che era antropologa, guardava al lavoro di suo marito con un pizzico di ironia, ma sapeva quante cose sarebbero cambiate, per tutti, se lui effettivamente avesse trovato qualcosa.
Quella sera lei era seduta sul divano, non mollava il telefono e fissava i bagliori provenienti dalla tv, senza riuscire a concentrarsi su niente. Io invece camminavo avanti e indietro di fronte alla finestra che dava sul vialetto. Scrutavo l’asfalto buio in attesa di vedere comparire i fari, mentre in alto il cielo di maggio brillava di incalcolabili, minuscole luci. Già allora, ma il mio ricordo potrebbe essere influenzato da ciò che accadde più tardi, mi parve che quella volta immensa e silenziosa, che pulsava di scintille, rappresentasse una sorta di presagio.
Quando infine mio padre arrivò, io e mia madre lo aspettammo di fronte alla porta. Lui la aprì, entrò, posò con calma lo zainetto che usava per l’ufficio, e si tolse la giacca scoprendo una camicia spiegazzata con le maniche arrotolate molte ore prima. Solo allora alzò su di noi due occhi stanchi e cerchiati, ma in cui vedemmo qualcosa che ci tolse il fiato: era mio padre, sì, ma era anche un altro uomo, un uomo che era appena tornato a casa dopo che la sua vita era cominciata per la seconda volta.
Ci disse semplicemente “È arrivato un messaggio”, e poi allargò le braccia per accoglierci.
Da quel giorno sono passati settant’anni, mio padre non c’è più da tanto tempo, e tutti insieme abbiamo girato abbastanza volte intorno al sole perché molti si siano dimenticati di lui, concentrandosi sul ragazzo che, appena possibile, raccolse la sua eredità. Non so nemmeno se me la sono meritata. Forse c’era qualcuno più qualificato di me che non ha avuto la fortuna di avere un padre famoso alla NASA, ma posso dire di aver dato a questo lavoro e a questa ricerca tutto quello che avevo, e forse anche qualcosa di più. Spero solo che quella persona più brava di me non si sia dispiaciuta troppo, e abbia comunque fatto una buona vita.
Ora voi volete che io vi spieghi cosa è accaduto in questi ultimi cinque anni, vi sentite in qualche modo persi, smarriti, tenuti all’oscuro senza un valido motivo.
Ma provate a pensare ad allora, quando non sapevamo realmente niente. Quando l’unica cosa di cui potevamo disporre erano congetture, ipotesi, simulazioni. Prima di quella sera di maggio, eravamo soli nell’universo, e la mattina dopo non lo eravamo più.
Come ben sapete, il messaggio a cui faceva riferimento mio padre era in realtà un pacchetto di dati molto ricco, all’interno del quale c’erano già moltissime informazioni su quelli che ancora oggi chiamiamo i centauri. “Centauri” è un termine che ho sempre detestato, ve lo dico subito, perché fin dall’inizio fu il modo di sovrapporre una realtà molto vecchia, e molto umana, a una completamente nuova, come se non riuscissimo ad accettare la diversità oltre un cento punto, prima di doverla inglobare dentro la cornice di ciò che ritenevamo ordinato e sicuro. Dopotutto, però, questo è anche un tratto della nostra specie, che fin dalle leggende su Adamo ed Eva nomina tutte le cose del creato così da dare loro un senso.
E naturalmente, il fatto che non possiamo fisicamente pronunciare il nome che si danno fra loro i centauri, a causa della loro capacità di comunicare tramite gli ultrasuoni, ha facilitato questo processo.
Non fu semplice, in quei primi mesi. Non sto a riassumere le questioni tecniche dietro la ricezione dei messaggi che da quel giorno cominciarono ad arrivare in grande quantità, con cadenza quasi regolare, per decenni. Non è nemmeno il mio campo: mio padre era astrofisico, e il suo lavoro ci servì a ottenere la tecnologia adatta a ricevere la più ampia varietà possibile di messaggi. Io invece sono biologo e linguista, e tutto quello che ho fatto nella mia vita è stato cercare di comprendere messaggi che stavano già arrivando.
Come dicevo, l’inizio fu complicato, perché nei pacchetti di dati che arrivavano sulla Terra c’erano sicuramente immagini e video, ma anche moltissime informazioni scritte. E se oggi tante persone conoscono e perfino utilizzano per diletto la scrittura ideo-alfabetica dei centauri, per noi che non la conoscevamo l’operazione di traduzione fu lunga e complessa, anche se fortunatamente facilitata dagli stessi centauri, che sapevano di dover insegnare la loro lingua a chiunque fosse stato capace di impararla.
Quei primi messaggi, in cui ci insegnarono i loro termini per il suolo, per il cielo, per le stelle, e per le parti del loro corpo (compresi i quattro arti che poggiano a terra e che ci hanno suggerito un nome per loro), furono un momento di straordinaria emozione, perché ci rendemmo conto che i loro occhi vedevano la realtà in modo non molto diverso da come la vedevano i nostri.
Naturalmente, gli scienziati come mio padre seppero fin da subito ciò che il resto dell’umanità avrebbe scoperto di lì a poco, l’informazione che tutti potevano immaginare, ma a cui non erano abituati a pensare.
Per tanti anni, i film e la letteratura avevano raccontato i primi messaggi giunti dalle profondità del cosmo come niente più che l’antipasto di un evento molto più atteso: l’incontro, la stretta fra una mano e un tentacolo, forse perfino lo scontro violento, come tante volte avevamo visto sullo schermo, mangiando popcorn pieni di burro.
Nella realtà, però, Einstein non ha mai smesso di avere ragione, e per quanto mio padre avesse forse sperato di venire a conoscenza di una tecnologia per lui ancora impensabile, le insensibili leggi dell’universo non cessarono di funzionare: non solo non ci sarebbe stato alcun incontro, ma quello che era appena iniziato non sarebbe mai stato nemmeno un dialogo.
Una delle prime informazioni che riuscimmo a carpire fu la distanza a cui si trovavano i centauri, ottomila anni luce che avevano un significato molto preciso: i messaggi che avevamo ricevuto e che stavamo ricevendo erano stati inviati ottomila anni prima.
I centauri avevano scritto al futuro, mentre noi potevamo leggere soltanto il loro passato. Abbiamo comunque iniziato a mandare a nostra volta dei messaggi, e probabilmente non avremmo potuto evitare di farlo. Comunicare è nella nostra natura, il linguaggio e la sua capacità di trasferire, conservare e tramandare la conoscenza è esattamente ciò che ci rende umani, e non potevamo accettare pienamente l’idea di essere semplici spettatori del più grande miracolo del cosmo.
Tuttavia, sappiamo benissimo che quelle informazioni arriveranno a destinazione fra altri ottomila anni, e per questo siamo sempre stati consci che avremmo dovuto dedicare la nostra intera vita a un’attività che agli umani, specie in tempi recenti, è riuscita sempre più difficile: ascoltare.
A colmare la lacuna ci ha pensato la nostra fantasia. Nessun singolo evento della storia umana ha plasmato la creatività della nostra specie come la scoperta dei centauri. Non c’è film, romanzo, saggio, tesi di laurea, ricerca scientifica, speculazione filosofica, riflessione religiosa, che non sia stata influenzata, spesso in maniera decisa, da quella scoperta. Abbiamo immaginato e raccontato ogni forma possibile di incontro con i centauri, e in questi lunghi decenni abbiamo sviscerato ogni singola informazione ed emozione scaturita dal quel mondo lontano, così solerte del fornirci nuovo carburante per i nostri sogni.
E in fondo una specie di dialogo c’è stato, perché molte volte ci è capitato di porci domande sulla natura dei centauri, della loro società, della loro mente, ricevendo una qualche risposta in uno dei messaggi successivi, in cui i nostri inaspettati vicini di cosmo sembravano prevedere quali sarebbero state le possibili curiosità dei loro invisibili interlocutori.
Nelle loro parole non c’è mai la richiesta di un incontro, forse non ce n’è nemmeno la speranza. Eppure c’è il desiderio di raccontarsi, di raggiungere qualcuno, di trovare conforto nella speranza di non essere soli in questo enorme e bellissimo spazio in cui i nostri occhi si riempiono di bellezza, ma in cui le nostre voci si perdono nel vuoto, senza lasciare alcuna eco.
In questa scoperta c’è anche un paradosso. Con tutto quello che i centauri ci hanno regalato, ci hanno anche tolto qualcosa. Siamo stati colpiti, affascinati, ma probabilmente anche delusi, dalla loro umanità. Sono diversi da noi, certo, nell’aspetto come nel linguaggio, ma per secoli abbiamo immaginato le civiltà extraterrestri come divinità a noi incredibilmente superiori, a cui concedevamo il potere di raggiungerci, per elevarci o per distruggerci, ma certamente per ammaliarci, per riempire le nostre menti di stupore. E invece una delle cose più vere e sorprendenti che possiamo dire dei centauri, è che in fondo sono come noi. Hanno sviluppato un’intelligenza che gli ha permesso di raggiungere risultati scientifici non tanto diversi dai nostri, vivono in agglomerati urbani che di fatto sono delle città con delle periferie, hanno combattuto guerre fratricide, hanno prodotto arti visive e sonore, credono in molteplici divinità che cambiano a seconda delle genti e dei continenti. Sono una specie basata sul carbonio e respirano ossigeno. Il loro mondo è fatto di piante e di acqua, di minerali, di vulcani e nuvole e pioggia.
L’idea che l’unica altra vita che siamo stati in grado di trovare nell’universo sia così simile a noi, ci conforta, ma ci indispettisce anche, come se ci fossimo aspettati di più da tutte queste galassie e nebulose.
Ma forse la più grande delusione è ancora la stessa: l’impossibilità di parlare con loro, di toccarli, di creare una comunità. Nel corso della nostra storia abbiamo spesso immaginato il contatto con gli alieni come uno scontro e una battaglia, in cui a volte ci siamo dipinti come i conquistatori, e altre volte come i conquistati. E di certo non sono mancate le persone che, in tutto il mondo, i centauri li hanno temuti e continuano a temerli, paventando la fine della nostra civiltà qualora venisse mai in contatto diretto con la loro. Eppure sono rimasto stupito dalla quantità di popoli, qui sulla nostra vecchia Terra, che hanno guardato al cielo con la pura e semplice speranza di trovare nuovi amici. Qualcuno con cui condividere il mistero dell’esistenza, con cui dialogare sul Bene e sul Male, qualcuno verso cui tendere un ponte, senza alzare alcun muro.
Sono orgoglioso di questa umanità, e mi dispiace che ora sia calata su di essa un’ombra di sconforto.
Oggi sono cinque anni esatti che non riceviamo più messaggi. Non era mai passato così tanto tempo fra un messaggio e l’altro, e spesso nuove informazioni arrivavano proprio quando avevamo finito di processare quelle vecchie. Abbiamo imparato così tanto da loro e su di loro, ma in tutto questo tempo non avevamo avuto il minimo sentore che avrebbero smesso di parlarci.
Sono stati cinque anni difficili, lo capisco. Ho dedicato la mia intera vita adulta, e quasi tutta la mia vecchiaia, ad ascoltare questi amici lontani, e non sentire più la loro voce ci fa sentire abbandonati molto più di quando credevamo di essere semplicemente soli.
Non conosciamo i motivi di questa interruzione. Non abbiamo avuto indizi su conflitti planetari, o crisi energetiche. Se ci sono stati, non ce li hanno raccontati, magari perché se ne vergognavano, o perché ne avevano paura. Abbiamo formulato le ipotesi più disparate, dal meteorite che colpisce il pianeta, alla semplice decisione di interrompere qualunque comunicazione. Forse questa è addirittura l’ipotesi più dolorosa: l’idea cioè che i centauri abbiano rinunciato a parlare quando si sono resi conto che nessuno rispondeva. L’idea che gli individui che avevano lanciato quei messaggi siano morti, così come i loro figli e i nipoti dei nipoti dei loro figli, senza sapere che un giorno la loro voce avrebbe effettivamente raggiunto qualcuno in grado di ascoltarla e di amarla come l’abbiamo amata noi.
Sono passati ottomila anni dall’invio di quei messaggi. Li hanno spediti quando l’umanità era agli albori primitivi della sua storia. Considerando che i centauri non sono mai arrivati qui, sul nostro pianeta, possiamo dedurre che questi ottomila anni non gli sono bastati per trovare un modo di viaggiare nel cosmo in tempi ragionevoli. Sembra quindi difficile che ci si possa riuscire noi.
C’è naturalmente la possibilità che la loro civiltà sia semplicemente finita, e che da qualche parte ci sia una roccia tonda che rotola nello spazio portando sopra di sé i resti di un antico popolo, ora coperto da una polvere che nessuno di noi potrà mai vedere.
Se così non fosse, se ci fosse ancora qualcuno lassù, i nostri messaggi arriveranno a loro fra ottomila anni, e se decidessero di risponderci ce ne servirebbero altri ottomila per leggere quella risposta.
A chiunque di noi è capitato di avere conversazioni difficili, zoppicanti. Sono certo che in gioventù il vostro cuore ha trepidato più volte in attesa di parole che sembravano non arrivare mai. Ma un dialogo in cui si parla ogni sedicimila anni, è probabilmente davvero troppo.
Ormai sono in pensione. Per me, la fine dei messaggi dei centauri è stata come un campanello, una sveglia, l’avviso che era giunta l’ora di riposare. Mi è dispiaciuto, certo, ma sarò onesto con voi: andarmene sapendo che non avrei letto il prossimo messaggio era qualcosa che mi lasciava un sapore amaro in bocca. Allo stesso tempo, mi dispiace per chi ora è giovane e, forse, non potrà vivere la vita di incredibili e istruttive scoperte che ho avuto io.
Ma siccome mi è stato chiesto un commento da rilasciare a tutti e tutte voi, in questo importante e doloroso anniversario, vorrei che il vostro pensiero non andasse alla paura che non ci sia altro da scoprire.
Vi chiedo invece di ripensare a quella fresca sera di maggio, quella in cui aspettavo mio padre davanti alla finestra, nella casa della mia giovinezza, sotto il cielo pieno di stelle. In quel momento, e fino a quel momento, non c’era niente altro che noi, le nostre fantasie e i nostri sogni. Un istante dopo, quando la porta si è aperta, lo ha fatto anche l’universo, e la nostra vita è cambiata per sempre.
Pensate a questo. Pensate al fatto che nessuno sa dove si trovi la prossima porta, e nessuno sa cosa ci sarà dietro di essa. Quello che però potete fare è cercarla, usare tutta la vostra intelligenza, il vostro cuore e la vostra passione, per trovare la prossima porta. O per costruirla, se necessario. Non posso garantirvi che ci riuscirete, né posso promettervi che quello che troverete oltre le porte situate sul vostro cammino vi piacerà.
Ma una cosa posso dirvela: cercare quella porta, e credere in lei, può diventare la più grande avventura della vostra vita.