Primavera

Per indicare lo scorrere del tempo, o per ricordare l’età di un membro del loro popolo, i nativi americani contano le primavere.
Che poi mica lo so se è proprio così, l’ho visto nei film e l’ho letto nei fumetti. Magari non è vero per niente e quelli si mettono le mani in faccia ogni volta che lo sentono dire.
Comunque, che gli piaccia o meno, ho pensato subito a loro quando la dottoressa ha detto “non più di due mesi”. In quel momento, la primavera di mesi ne distava tre.
Non è una cosa a cui pensiamo spesso. Immagino sia una questione psicologica, di preservazione dell’equilibrio mentale o qualcosa del genere. Quella specie di inconsapevole ottimismo che ci spinge a prenotare una vacanza con otto mesi di anticipo.
Poi però se qualcuno viene a dirti all’inizio dell’inverno che non vedrai la prossima primavera, non ci rimani benissimo. Anzi, ci rimani di merda, se me lo concedete.
Perché l’inverno è brutto. È freddo, è buio, è grigio. La terra è dura, i rami secchi, gli uccellini non cinguettano. Metti la sveglia presto, quando ancora fuori è tutto scuro, e ti sembra di non aver dormito affatto. Ti vesti a strati e rotoli fuori nel gelo come un bambolotto, a sentire quelle fastidiose punturine sulle guance. Finisci in una metropolitana torrida e pressata dove basta una sciarpa per sentirsi annegare. Dalle finestre dell’ufficio fissi per ore quel pallore lattiginoso e quando esci è di nuovo notte, il sole è passato senza salutare. Magari piove, ma non pioggia vera: quelle goccioline che ti obbligano a non aprire l’ombrello per non fare la figura dell’idiota, ma che poi puntano il colletto con gelida determinazione, come kamikaze con una portaerei.
Eppure affronti tutto perché poi la primavera arriva, lo sai che arriva, è sempre arrivata, e arriverà anche questa volta.
A meno che…
Nel momento in cui la dottoressa erige quella barriera invalicabile, la primavera diventa l’unica cosa che conta. Un miraggio, un sogno, la vincita alla lotteria, il corpo di quella ragazza che sogni dal liceo, la carezza di tua madre quando hai avuto gli incubi. L’inverno diventa gabbia rugginosa, prigione sporca e umida.
Come si fa ad accettare che non vedrai più un fiore? Come riesci a pensarci? A pensare che non tornerà il momento in cui ti toglierai la giacca perché caspita, fa caldo oggi. Non andrai a camminare al parco, non sentirai nell’aria il profumo dell’erba appena tagliata. Non ascolterai più il telegiornale che, con formula collaudata, mette in guardia dai potenziali scompensi causati dall’ora legale. Niente più rondini. Niente mare, nemmeno quel mare ancora troppo freddo ma già pieno di colore. Niente cinema in calzoni corti. Niente cono gelato da leccare in fretta prima che si sciolga sulle mani. Niente vestitini ammiccanti, profumo di doposole. Niente cielo blu, quel cielo blu che l’inverno ti concede poco, pochissimo, per farsi beffe di te.
Ovvio che non lo accetti. Non esiste. La primavera diventa un traguardo, il bottino di guerra. Non è forse così che dobbiamo vivere la malattia? Non è questo che la gente si aspetta da noi? La battaglia contro il mostro che vive dentro di te. La lotta all’ultimo sangue contro l’oscurità, il coraggio di affrontare l’innominabile ed essere per questo applauditi e ricordati. Bla bla bla.
Tutto per vedere un’altra primavera. Un’ultima primavera è l’unica cosa che conta. Aggrapparsi alla terra, infilare le dita fiacche nel suolo rigido e piantarsi come querce mentre infuria la tempesta. Non mi avrete, non mi abbatterete, arriverò fino a lì, lo vedrete tutti che non sono uno che si arrende.
E così faccio. Prendo tutta l’energia che ho, sprono le poche cellule sane che rimangono, le aizzo e le frusto perché cavalchino questa biga scassata e dolorante verso la vittoria.
Niente altro conta davvero. Solo vedere e sentire quello che mi hanno detto che non potrò più vedere e sentire.
E ci riesco. Certo che ci riesco, con chi pensavate di avere a che fare?
Oggi è il primo giorno di primavera, e anche se le gambe non vogliono proprio scendere dal letto, fuori dalla finestra c’è un ciliegio in fiore, con i petali rosa che dondolano nel vento come nei cartoni animati giapponesi. Sono arrivato a un’altra primavera, e siccome me la sono sudata più degli altri, vale come dieci, o cinquanta. Ora sono il vecchio saggio di una tribù del Nord Dakota, o del Wyoming.
C’è solo una sorpresa: la primavera fa schifo.
Già, tocca ammetterlo. Ho dato tutto per arrivare qui, ma ora mi sfugge il senso. Fino a ieri c’era, sicuro, ma ora si è sfocato, non ne distinguo più i contorni. Tutto sta rinascendo, andrà avanti, ma io no. Ho messo un piede nel futuro ma non ci posso entrare, e a lui non interessa, non si scompone, va per la sua strada.
Sapete invece cosa mi manca? L’inverno. L’inverno è bello. Levigato, misterioso, millenario. Quel contemplare il gelo sapendo di essere al caldo. La cioccolata in tazza con due cucchiaini aggiuntivi di zucchero. Il film da guardare sul divano, sotto la coperta. La neve. Non è forse straordinaria, la neve? Una mano di bianco sul grigio e sul marrone, il suono ovattato della voce, il fruscio del piede che affonda, le nuvolette di respiro che si mescolano ai fiocchi.
Quanto vorrei rivedere quella metropolitana rovente e affollata. I colleghi con cui fare la pausa caffè. Le caldarroste e i mercatini. Ridere e imprecare perché la pioggerella ti è entrata nel collo e tu, fesso, non vuoi aprire l’ombrello.
Quante cose non ho fatto. Non sono stato in Sudamerica. Non ho mai cantato al karaoke. Non ho mai mangiato la pizza con l’ananas perché era una bestemmia, ma chissà, magari mi sarebbe piaciuta. Non ho mai partecipato a un falò sulla spiaggia, neanche da ragazzo. Non ho mai detto ti amo a una persona che non l’avesse detto prima a me. Non si poteva rischiare di dirlo e non essere ricambiati. Non si poteva vincere la paura di sbagliare, la paura del rifiuto, non si poteva rischiare di piangere, e non si poteva rischiare di essere felici per davvero. Non c’è un conto dei ti amo che non ho detto, e chissà quanti ti amo non hanno detto a me. Quanta gioia persa nel nulla, per orgoglio e per paura.
E quante cose ho fatto senza rendermi conto del privilegio di poterle fare.
Prendere un aereo che parte in ritardo. Attendere troppo per un piatto al ristorante. Stipare l’auto di bagagli per andare al mare. Leggere un brutto libro. Guardare negli occhi una ragazza a cui non piaci, ma sapere che ci hai provato. Perdere una partita alla playstation, giocata con dita che funzionano e con occhi che corrono veloci senza dolere. Raccontare qualcosa che ti sta a cuore cercando qualcuno che ti capisca. Arrivare all’ultimo episodio e odiare il finale. Stancarsi, nell’afa e nel vento. Litigare senza avere un tubo ficcato in gola. Litigare perché sai che avrai tempo di fare pace. Respirare da solo l’aria gelida dell’inverno, seguire il suo percorso nei polmoni, sentirli fremere di allarme e di vita.
Qualcuno me lo doveva dire che sì, il futuro è affascinante, ma il presente è già qui. Uno si distrae, se lo dimentica. Me lo dovevano ricordare che l’inverno è bello. Che la primavera, senza di lui, non conta niente.

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