Bussò energicamente sulla porta di plastica temperata.
Aveva un leggero fiatone e provava la sgradevole sensazione di aver iniziato a sudare in più punti. L’attrezzatura era pesante e la tracolla gli segava la spalla. Bussò ancora. Solo in quel quartiere di merda c’erano ancora palazzi senza ascensore.
«Sei lui?» disse una voce ovattata al di là della porta.
«Sono sicuramente alcuni “lui”, non tutti» ribatté l’uomo. «Ma sono quello che serve a voi. Apri che si muore di caldo.»
Udì un rumore di chiavistello che faceva subito Ventesimo Secolo, massimo inizio Ventunesimo, e la porta si spalancò lentamente, aprendosi su un monolocale sudicio. Mobili vecchi e rovinati, probabilmente pre-guerra, erano disposti senza alcuna logica a sprecare il già poco spazio disponibile. Un divano pieno di macchie scure, un paio di tavolini a sospensione che tremolavano incerti su un cuscino magnetico evidentemente difettoso, un angolo cucina in cui nessuno aveva mai cucinato niente, ma che riusciva comunque a essere sporco di vecchiume e muffa. Un oloproiettore a cui era stato messo il muto mostrava il sorriso finto e silenzioso di un qualche presentatore. C’erano confezioni di cibo da asporto lasciate a marcire per così tanto tempo, che era difficile stabilire se fossero arrivate prima quelle o i mobili. Almeno c’era l’aria condizionata, anche se aveva uno strano odore, come se un opossum fosse morto nei condotti.
Il tizio che aveva aperto la porta era una scimmietta pelle e ossa con gli occhi spaventati e la tendenza ad abbassare continuamente la testa, come se si aspettasse di ricevere una bastonata. Portava una canotta troppo larga e pantaloni corti tutti strappati. Era bianco come un cadavere, probabilmente non vedeva la luce del sole da mesi.
L’altro era più alto, ben piantato, coi bicipiti che tendevano una maglietta appositamente stretta, con due aloni di sudore sotto le ascelle. Lui l’abbronzatura ce l’aveva, ma non certo naturale. Teneva la testa alta e spavalda, ma continuava a mordersi il labbro inferiore e faceva saltare continuamente lo sguardo fra il nuovo arrivato e la sedia che stava quasi al centro della stanza.
Sulla sedia c’era un terzo tipo, con un abito da ufficio portato male, con la cravatta allentata, mezza camicia fuori dai pantaloni, e una posa a metà fra il seduto e lo sdraiato. Teneva gli occhi chiusi e le labbra semiaperte, con un piccolo filo di bava all’angolo della bocca. Incollati alla testa aveva sei elettrodi che emettevano un debole luccichio. Sul divano poco vicino a lui, un ripetitore Opta di tre generazioni prima brillava all’unisono con gli elettrodi. L’uomo teneva le mani strette a pugno, sollevate fin quasi sotto il mento.
Brutta storia.
«Come vi chiamate?» chiese l’uomo, appoggiando la borsa per terra dopo aver controllato che sotto non ci fosse qualche residuo di cibo o un topo morto.
La scimmietta e il pompato si scambiarono occhiate febbrili, studiando il da farsi.
«Lo so che non avete la licenza per fare quello che fate. Pensate che se io avessi la licenza per fare quello che faccio, verrei in questo buco? Non devono essere quelli veri, dai.»
«Bulko» disse infine il pompato.
«Keta» sussurrò la scimmietta.
«Bulko e Keta, anche creativi, bene. Mi chiamano Doc, potete farlo anche voi. Ora vi farò qualche domanda, e voi mi risponderete in modo rapido, preciso e limitandovi ai fatti di cui avete certezza, chiaro?»
I due annuirono. Bulko si teneva stretto alle sue stesse braccia, mentre Keta guardava dappertutto, soffitto compreso, pur di non guardare il loro ospite.
«Ce li avete i soldi?» chiese Doc. Prima regola, verificare che abbiano i soldi. Specie nei palazzi senza ascensore.
«Il nostro amico ha detto cinquecento» rispose Bulko.
«Il tuo amico è male informato, sono mille.»
«Mille??» si sorprese Bulko, lanciando uno sguardo incazzato a Keta, che evidentemente era quello che per primo aveva ritenuto necessario chiamare aiuto. «Mi sembra esagerato.»
Doc afferrò di nuovo la tracolla e fece per riprendere la sua roba.
«Libero di trovare qualcuno che ti faccia il lavoro a meno.»
Bulko guardò il tizio sulla sedia e venne travolto dalla prospettiva di rimanere di nuovo da solo con lui.
«Ok ok, li abbiamo.»
Doc rimise a terra il borsone.
«Da quanto tempo sta così?»
«Due ore circa» rispose Bulko.
«È in regressione standard o ci avete aggiunto roba vostra?»
«Standard.»
«Sicuro? Non è che gli avete fatto scopare la ragazzina che al liceo non gliela faceva neanche vedere, cose così?»
«L’ha chiesto lui, è standard» ribadì Bulko.
Doc guardò quella specie di impiegato catatonico e fece la domanda più importante.
«Fino a quando è regredito?»
Bulko non rispose. Ancora uno scambio di sguardi fra i due padroni di casa.
«Allora? Non è una domanda difficile.»
Questa volta fu Keta ad arrendersi, abbassando il capo per fissare il pavimento lurido.
«Sette mesi.»
Questa volta Doc si sorprese sul serio.
«Sette mesi? Cioè feto?! Ma siete impazziti?»
Doc si mosse rapidamente. Aprì il borsone e cominciò a tirare fuori i suoi strumenti.
«Ce l’ha chiesto lui, giuro!» si affannò a piagnucolare Keta.
«Io gliel’ho detto che era una cazzata, a tutti e due» sottolineò Bulko, «ma quello ha raddoppiato la paga e ha detto di avere una pastiglia apposta.»
«Sì sì, ha parlato di una pastiglia e poi l’ha presa!» confermò Keta.
Doc stava tirando fuori un Opta ultimo modello già crackato, degli elettrodi suoi che probabilmente non sarebbero serviti, e uno spinotto cervicale che invece era l’unica speranza di quel poveraccio.
«Che pastiglia?» chiese distrattamente mentre si assicurava che tutto funzionasse.
«Ha detto che aveva una pastiglia che bloccava gli effetti avversi della regressione fetale» disse Keta, con il chiaro tono di chi in fondo non ha fatto niente di male, e che non capisce perché le cose siano andate storte.
«Era una mentina» rivelò Doc, che era di nuovo chino per estrarre una custodia contenente alcune siringhe piene di un inquietante liquido verde. «Non esistono pastiglie magiche per proteggere il cervello da una regressione del genere, e voi siete due imbecilli.»
Bulko si fece avanti di un passo, con fare minaccioso.
«Cos’è che hai detto?»
Doc si risollevò e dovette alzare lo sguardo per poterlo guardare negli occhi, ma non arretrò di un centimetro.
«Voi due gestite un memorium clandestino senza avere né la licenza né strumenti abbastanza aggiornati, e già questo sarebbe abbastanza stupido. Come se non bastasse, non vi limitate a rimandare la gente indietro fino alle elementari, o alle medie, per fargli rivivere quella volta che hanno vinto l’unica medaglietta della loro vita, o per fargli incontrare di nuovo i genitori morti. No, voi fate l’unica cosa che proprio non dovete fare. Tu, Keta, giusto?» chiamò Doc, sentendo la scimmietta fremere alle sue spalle anche se lui non staccava gli occhi da quelli di Bulko. «Qual è la regola numero uno della Regressione Mentale Emocronologica? La regola che trovi anche su internet, su qualunque sito, senza bisogno di aver fatto il corso ufficiale?»
Keta mormorò la risposta che evidentemente conosceva bene: «Mai regredire troppo, e soprattutto mai regredire al pre-parto.»
«Come ho detto, due imbecilli» ribadì Doc, faccia a faccia con Bulko. «Ora dobbiamo sperare che sappiate almeno darmi una mano.»
Bulko resse lo sguardo di Doc ancora per qualche istante, poi fece un passo indietro e incrociò di nuovo le braccia.
«È un paese libero, comunque» borbottò. «Non siamo responsabili di quello che questo tipo vuole o non vuole fare.»
«Ma certo» ribatté Doc, «infatti è tutto regolare e voi vi siete rivolti al più vicino ospedale, come da prassi.»
Non aveva voglia di fare discussioni filosofiche con quei due caproni. Fissò invece il tizio sulla sedia.
«Quante volte ha cagato o pisciato?»
Keta guardò Bulko, sorpreso. «Io… credo nessuna.»
Doc posizionò l’Opta di fronte al paziente, prese dalla borsa quello che sembrava un rasoio, o un cavatappi, e cominciò a srotolare il filo con lo spinotto.
«Bene. Chi regredisce fino allo stadio fetale tende a perdere qualunque controllo sulle funzioni corporali. Pensano addirittura di essere attaccati al cordone. Se ancora non s’è pisciato sotto neanche una volta, forse lo riprendiamo.»
«Non morirà, vero?» chiese Keta con un filo di voce.
«No che non morirà, ma potrebbe dover ricominciare tutto da capo, pannolini compresi.»
«Mio Dio…» commentò Keta. «E che possiamo fare?»
«I ricordi della sua vita non sono cancellati, li sta solo dimenticando. Ma adesso noi invertiamo il processo e gliela facciamo rivivere tutta. Venite qui, tenetemelo fermo.»
Con l’aiuto di Bulko e Keta, che si misero ai due lati del paziente afferrandolo per le braccia e le spalle, Doc gli iniettò due fiale di liquido verde, una per braccio. Poi gli andò dietro, osservandogli la nuca.
«Ora lo dovete tenere fermo sul serio. Prendetegli la testa.»
Doc impugnò lo strumento a forma di cavatappi, rivelando una punta molto sottile. Nell’altra mano aveva lo spinotto, il cui cavo finiva nell’Opta. Dalla punta dello spinotto si vedevano spuntare minuscoli filamenti, così leggeri da fluttuare nell’aria puzzolente dell’appartamento.
In quel momento udirono uno sgocciolio provenire dal pavimento sotto la sedia. Il tipo aveva appena perso il controllo sulla vescica.
«Ora ascoltatemi bene» disse Doc. «Non abbiamo tempo di sistemarlo come si deve. Adesso praticherò una piccolissima incisione dietro la testa e applicherò lo spinotto. Dallo spinotto partono i fili che da soli arriveranno all’ippocampo. In teoria non serve l’immobilità assoluta, ma meno si muove e meglio è. Io applico lo spinotto e vado all’Opta, mentre voi state qui e lo tenete fermo più che potete, chiaro?»
Bulko e Keta annuirono, le fronti imperlate di sudore nonostante l’aria condizionata.
Doc avvicinò lo strumento alla nuca, e quello fece quasi tutti da solo, aprendo una minuscola incisione in cui venne inserito lo spinotto.
«Fermi ora» ribadì Doc mentre si spostava verso il divano.
Prese in mano l’Opta e nel piccolo schermo vide il percorso dei fili, che in meno di un minuto si fecero strada fino all’ippocampo.
«Tenetelo, le emozioni potrebbero essere forti.»
Premette il pulsante di avvio sull’Opta e subito i lineamenti del paziente cominciarono a tremolare.
Nei due minuti successivi, sul volto dell’uomo passò l’intero corredo delle emozioni umane. Uscì dall’utero in un misto di sorpresa e disperazione, imparò a respirare, poi si crogiolò nelle cure amorevoli della madre. Mosse i primi, difficili passi eretti e si impaurì al primo giorno di scuola. Riscoprì la gioia dei regali di Natale, poi l’ansia dei primi amori. Si annoiò a studiare e nutrì odio verso professori e bulli. Provò il folle disordine dei primi orgasmi, pianse i suoi lutti, invidiò, sperò, vinse e fu sconfitto. Più tutto quello che, nessuno dei presenti ne sa sapeva nulla, l’aveva convinto a spendere bei soldi per dimenticare ciò che gli era successo in vita e tornare a uno stadio neonatale.
Quando il flusso finì, spalancò gli occhi e si agitò con violenza, guardandosi intorno come se fosse appena uscito dalla placenta, ma completamente adulto e con la cravatta.
«Bentornato» fece Doc, più che altro parlando fra sé, visto che il paziente era completamente confuso e Keta e Bulko erano troppo impegnati a impedire che saltasse via dalla sedia.
Ci vollero dieci minuti buoni prima che si calmasse del tutto, dieci minuti durante i quali Doc rimosse lo spinotto e gli elettrodi, e ordinò a Keta e Bulko di preparare del caffè.
Una volta acquietato, e nonostante perdurasse un certo stordimento, il paziente mostrò abbastanza presenza di spirito da non rivelare il proprio nome.
«Chiedo scusa» mormorò fra un sorso di liquido amaro e l’altro. «Non volevo arrecare… avevo solo bisogno…»
«Amico, ascolta» disse Doc mentre rimetteva i suoi strumenti nel borsone, sotto l’occhio sfinito di Keta e Bulko. «La tua vita fa schifo, benvenuto nel club. E non ti giudico per aver scelto di provare a ricominciare. Ma fidati, in quel modo diventi solo un neonato che se la gode finché non staccano gli elettrodi, poi finisci ad essere solo un quarantenne che si caga addosso, ci sei?»
Il paziente teneva la tazza di caffè con due mani e annuì più volte, come se in effetti non fosse riuscito a scrollarsi di dosso tutta la sua infanzia.
«Fidati di me, vai da uno psicologo, non c’è niente di male, e se serve ti danno anche delle pilloline migliori di quelle che dicevi di avere tu.»
«Ok, sì certo» fece l’uomo. «È normale che io senta i ricordi più… vivi? Non lo so, più veri?»
«Li hai vissuti tutti due volte, e l’ultima in due minuti. Lo psicologo ti aiuterà anche in quello. Oppure riprovaci, pisciati di nuovo sotto, e spera che io arrivi di nuovo in tempo. D’altronde devo pur mangiare. A proposito…»
Bulko capì quello che Doc intendeva, usò le dita della mano destra per auto digitarsi delle cifre sul palmo della mano, e poi spinse i soldi con un gesto verso Doc, che ricevette una notifica di avvenuto pagamento.
«È stato un piacere signori, o per lo meno un’esperienza» si congedò. «E pulite un po’, o la prossima emergenza medica potrebbe essere la scabbia.»
Non aspettò di essere salutato, si rimise il borsone sulla spalla, aprì la porta, uscì sul pianerottolo e la richiuse dietro di sé.
Fece appena in tempo a esalare un sospiro stanco quando ricevette una chiamata direttamente nell’impianto cocleare.
«Che c’è? Sono appena uscito» rispose mentre guardava il soffitto. «Dove? In quanti sono? Ma scopare come si faceva una volta, no? Sì sì, ok. Va bene, la prendo io. Per stasera è l’ultima però, sappilo. Sì lo so dov’è, dieci minuti.»
Concluse la telefonata, si sistemò meglio la tracolla, e solo in quel momento, cercando d’istinto di fronte a sé senza trovare niente più che una balaustra, si ricordò che non c’era l’ascensore.
«Merda» commentò, prima di sbuffare giù per i gradini.